LA TEORIA DELL'ATTACCAMENTO DI BOWLBY E IL RUOLO DELLA FIGURA PATERNA (a cura del dott. Adriano Zenilli)

John Bowlby, (1907 – 1990), psicologo e psicoanalista britannico, a partire dalla fine degli anni sessanta, nell’ambito degli studi sulle relazioni all’interno della famiglia, elaborò una teoria sul legame affettivo fra il bambino e chi si prende cura di lui (caregiver).
Secondo tale teoria esisterebbe nell’uomo una tendenza innata a ricercare la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta, ogni volta che si costituiscano situazioni di pericolo, dolore, fatica o solitudine. Tale idea è confermata dalle osservazioni in ambito etologico sul fenomeno dell’imprinting e sui legami che i piccoli mammiferi costruiscono con i loro genitori e che ne aumentano la probabilità di sopravvivenza (Liotti, 1996).
La Teoria dell’Attaccamento sostiene che anche l’uomo possiede un sistema innato di controllo del comportamento di attaccamento che rende desiderabile la vicinanza protettiva di una figura di attaccamento, soprattutto in condizioni di vulnerabilità, pericolo, affaticamento, dolore o malattia. Tale sistema si attiva quando in tali condizioni sia necessario avvicinare una figura di attaccamento innescando una serie di abilità comportamentali. Quando l’obiettivo è conseguito, il sistema si disattiva. Durante le operazioni del sistema di attaccamento vengono evocate potenti emozioni come modo principale di modulare la richiesta di cura e vicinanza.
Le conoscenze che derivano nel bambino dei primi contatti col genitore e delle sue risposte, contribuiscono a costruire quegli schemi cognitivi su di sé e sul mondo che Bowlby chiama modelli operativi interni. Essi sono in pratica insiemi di ricordi e aspettative riguardanti tanto il Sé del bambino quanto gli atteggiamenti dei genitori in risposta alle sue richieste di vicinanza.
Secondo Lambruschi, Lenzi e Leoni, esiste una stretta interdipendenza fra processi di attaccamento e Sé. La relazione con le figure di attaccamento diventa primaria e prioritaria e non più il mezzo per poter raggiungere altri scopi. La relazione è quindi essa stessa il fine (Mitchell, 1988).
È necessaria la relazione d’attaccamento perché solo all’interno di questo stato di relazione il bambino riesce a sviluppare un sentimento di Sé stabile e coeso. Il comportamento delle figure genitoriali nei suoi confronti costituisce per il bambino la matrice dalla quale egli comincia a percepire ed estrarre informazioni importanti relative a Sé.
A tal fine, caratteristiche di una relazione d’attaccamento significativa sono: l’unicità e l’esclusività della relazione, il genitore guarda, tocca e risponde al bambino in un modo che è assolutamente unico; l’unitarietà, il genitore entra in relazione con tutto l’essere del bambino e non con singole parti di lui; la costanza, il bambino costruisce le proprie rappresentazioni stabili di Sé grazie alla continuità della relazione con le figure di attaccamento.
Mary Ainsworth, una collaboratrice di Bowlby, applicò la Teoria dell’Attaccamento all’ambito della ricerca e arrivò a sostenere che lo schema di attaccamento che un bambino sano alla nascita sviluppa nei riguardi della madre è il risultato del modo in cui la madre lo ha trattato (Ainsworth, 1978). 
Bowlby elaborò delle fasi attraverso le quali la relazione di attaccamento si costruisce. La prima fase, fra gli 0 e i 3 mesi, è quella della regolazione fondamentale fra l’accudimento della madre e gli stati di attività e riposo del bambino in cui i due si sintonizzano sui ritmi di base. In questa fase è la figura di attaccamento che da senso ai comportamenti del bambino fornendogli quello che Stern chiama “senso di Sé emergente”. Perché questo possa avvenire è necessario che la figura di attaccamento riesca a mettersi emotivamente nella posizione del bambino, possa cioè condividere empaticamente. L’esito di questa sintonizzazione si esprime nella prontezza, nell’appropriatezza, nell’intensità e nella completezza della risposta della figura di attaccamento nonché nella sua stabilità nell’esserci. 
La fase che va dai 3 ai 6 mesi è detta di scambio reciproco. Attraverso il sorriso e le vocalizzazioni tipiche dell’età, il piccolo partecipa molto più attivamente alla relazione e struttura uno schema relazionale. Tale fase si manifesta con l’emissione di comportamenti verso i quali il bambino si attende una risposta e dalla comparsa di alcune manifestazioni affettive tipiche come il riso che assume una funzione relazionale.
Tra i 6 e i 9 mesi il bambino è nella fase dell’iniziativa, il bambino dimostra col suo comportamento di aver interiorizzato la relazione con la figura di attaccamento e manifesta la paura dell’estraneo.
Tra i 9 e i 12 mesi compaiono quelli che vengono definiti Modelli Rappresentativi Interni cioè strutture rappresentative di Sé e della relazione. In questa fase è possibile iniziare a osservare i pattern di attaccamento. Questi modelli operativi delle figure di attaccamento e di sé nella relazione riflettono la storia delle risposte genitoriali in termini di disponibilità, accessibilità e prontezza verso le richieste di sicurezza del bambino.
La Teoria dell’Attaccamento ha dato vita a numerose ricerche con lo scopo di definire i diversi stili di attaccamento, il collegamento fra questi stili e le strutture cognitive e di personalità dell’individuo, i processi cognitivi che vengono attivati durante le dinamiche di attaccamento.
Una delle ricercatrici più famose nel campo dell’attaccamento fu proprio Mary Ainsworth che elaborò una procedura sperimentale per individuare i diversi stili di attaccamento fra genitori e figli, la Strange Situation (Ainsworth, Blehar e altri, 1978; Ainsworth, 1985). Il bambino fra i 12 e i 18 mesi, accompagnato da una sola delle sue figure di attaccamento (madre o padre) viene introdotto in una stanza che vede per la prima volta. Uno sconosciuto accoglie genitore e bambino , dopo pochi minuti il genitore esce dalla stanza lasciando il bambino e si osservano le reazioni di quest’ultimo alla separazione. Trascorsi al massimo tre minuti il genitore rientra e si osservano le reazioni del bambino al ricongiungimento. Il comportamento del bambino alla separazione e al ricongiungimento descrive la forma assunta dalla relazione di attaccamento nel corso del primo anno di vita (Ainsworth, 1982; Ammaniti e Stern, 1992; Liotti, 1994). 
Alcuni bambini reagiscono a questa situazione con apparente indifferenza ma con una significativa attivazione fisiologica ipercontrollata e repressa dal bambino. Al momento della riunione questi bambini mantengono la loro indifferenza ed evitano il contatto con la figura di attaccamento. Questo pattern di attaccamento è stato definito “evitante”.
Altri bambini protestano vivacemente alla separazione dal genitore e lo continuano a cercare attivamente ma si calmano prontamente al momento della riunione. Questo pattern di attaccamento è stato definito “sicuro” perché il bambino pare determinato nella sua ricerca del genitore e sicuro della sua risposta al ricongiungimento.
Un terzo gruppo di bambini protestano vivacemente durante la separazione ma non si calmano e anzi continuano a protestare anche dopo la riunione nonostante l’abbraccio del genitore che dovrebbe calmare il disagio. Questo pattern viene chiamato “ambivalente” perché il bambino da un lato sembra desiderare la presenza della sua figura di attaccamento ma dall’altro sembra rifiutarne il conforto). 
Infine un quarto gruppo di bambini presenta una notevole disorganizzazione nel comportamento di attaccamento reagendo a separazione e riunione con comportamenti contraddittori, simultanei e in rapida successione, mostrando anche emozioni contrastanti come collera e amorosa attrazione. Questo pattern è stato definito “disorganizzato” perché esprime un evidente disorientamento del bambino di fronte agli eventi di separazione e riunione.
Bowlby afferma che questi schemi comportamentali sono stabili durante i primissimi anni di vita e in grado di predire come un bambino, dall’età di quattro anni e mezzo, si comporterà nei confronti di una persona estranea e affronterà un nuovo compito (Bowlby, 1988).
Sono stati studiati, con diversi metodi, gli atteggiamenti dei genitori correlati ai diversi stili di attaccamento dei bambini. Lo strumento più utilizzato attualmente è la Adult Attachment Interview di Mary Main (Main, 1990). Si tratta di un’intervista strutturata che valuta le proprietà di linguaggio, della memoria e del pensiero dell’adulto mentre riflette stimolato dalle domande sul proprio rapporto con i genitori e sul valore che si è formato circa le esigenze di attaccamento. Ai diversi stili di attaccamento corrispondono diversi profili genitoriali (dismissing, cioè svalutativo del bisogno di cura e attenzione; free, che esprime libertà di riflessione e ricordo della propria infanzia; entagle, ovvero ancora occupato a risolvere i conflitti inerenti la propria relazione di attaccamento; unresolved, caratterizzato dalla mancata elaborazione di traumi o lutti che hanno costellato la propria esperienza di attaccamento).
Il CARE-Index è uno strumento sviluppato da Crittenden tra il 1988 e il 1994 che permette di misurare la sensibilità dell’adulto nel cogliere i comportamenti del bambino e rispondere in modo da migliorare lo stato del bambino stesso e si basa sull’osservazione di un breve periodo(dai tre ai cinque minuti) di interazione di gioco libero  videoregistrato tra adulto e bambino con età dall’età di quattro settimane fino ai trentasei mesi.
La Teoria dell’Attaccamento di riferisce alla qualità della relazione fra il bambino e le sue figure di attaccamento che siano esse il padre o la madre. In “Una base sicura” Bowlby stesso dichiara che sia stata presa in causa moto più spesso la madre nelle fasi di ricerca perché è relativamente facile reclutare come soggetti d’esame bambini che sono accuditi principalmente dalla madre, mentre quelli accuditi dal padre sono assai pochi (Bowlby, 1988). In realtà Bowlby assegna un ruolo altrettanto importante al padre, con somiglianze e differenze da quello della madre.
Ricerche svolte da Main e Weston (1981) hanno dimostrato che in un gruppo di sessanta bambini, gli schemi di attaccamento nei confronti del padre erano molto simili a quelli mostrati nei confronti della madre. Un’ulteriore scoperta ha portato però alla luce che non esiste nessuna correlazione fra lo schema messo in atto nei confronti di un genitore e lo schema posto nei confronti dell’altro. È possibile quindi che un bambino abbia una relazione sicura con la madre e non con il padre o viceversa o che abbia una relazione sicura con tutti e due o con nessuno dei due. I bambini comunque con una relazione sicura nei confronti di ambedue i genitori erano i più fiduciosi in sé stessi e i più capaci.
Completando la riflessione della Ainsworth, Bowlby afferma chegli schemi che un bambino sviluppa riguardo al padre dipendano da come questi lo ha trattato. Egli, fornendo una figura di attaccamento per il figlio, può assumere un ruolo che assomiglia strettamente a quello materno. Nella maggioranza delle famiglie con bambini piccoli questo ruolo è diverso ma altrettanto importante con l’unica caratteristica dell’essere genitori: fornire al bambino una base sicura (Bowlby, 1988). 
A partire da queste ultime considerazioni, ricerche recenti hanno voluto dimostrare l’importanza del ruolo paterno nella relazione di attaccamento  e nello sviluppo di un bambino a partire già dai primissimi mesi di vita. Ronald Rohner, professore presso l’Università del Connecticut, dopo aver analizzato le ricerche realizzate a livello internazionale nell’ultimo mezzo secolo, ritiene si possa affermare che l’esperienza del rifiuto, soprattutto da parte dei genitori, durante l’età pediatrica ha un effetto molto forte sullo sviluppo della personalità. Inoltre, i bambini e gli adulti, indipendentemente dalle differenze di cultura e genere, tendono a rispondere esattamente allo stesso modo quando hanno percepito loro stessi come respinti dai loro caregiver e dalle altre figure di attaccamento.
Quando si tratta l’argomento dell’impatto dell’amore di un padre rispetto a quello di una madre, i risultati provenienti da più di 500 studi suggeriscono che i bambini sperimentano l’influenza del rifiuto da parte del padre come superiore rispetto a quello della madre. (tratto dall’articolo “L’amore paterno è fondamentale per lo sviluppo di una persona” , State of Mind, 2012). 
Da una ricerca finanziata dal Wellcome Trust sembrerebbe che i bambini i cui padri sono più positivamente coinvolti nelle interazioni con loro, a soli tre mesi di vita, mostrino meno problemi comportamentali all’età di dodici mesi. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno pubblicato sul Journal of Child Psycology and Psychiatry, uno studio su 192 famiglie per verificare l’associazione tra le modalità interattive del padre nel primo periodo post-natale e il comportamento del bambino nei successivi 7 mesi. Dalla ricerca è emerso che i bambini i cui padri erano più coinvolti nell’interazione con loro mostrano minori problemi comportamentali a un anno di età; al contrario, i bambini i cui padri erano più distanzianti e meno interattivi, tendevano ad avere maggiori problemi comportamentali. (tratto da “Bambini: già dai tre mesi di vita quanto contano le interazioni con il papà” di L. Confalonieri, 2012). 
Dott. Adriano Zenilli 
Psicologo clinico e dell'Età Evolutiva 
BIBLIOGRAFIA 

John Bowlby, Attaccamento e perdita vol.1 (1989) Bollati Boringhieri 

John Bowlby, Attaccamento e perdita vol.2 (2000) Bollati Boringhieri 

John Bowlby, Attaccamento e perdita vol.3 (2000) Bollati Boringhieri 

John Bowlby, Costruzione e rottura dei legami affettivi (2007) Raffaello Cortina

John Bowlby, Una base sicura (1989) Raffaello Cortina

Mary D. Ainsworth, Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Raffaello Cortina, Milano 2006

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VACANZE: SOLE, COMPITI E VIDEOGIOCHI (a cura del dott. Adriano Zenilli)

" Dottore ma come devo fare? Passa tutto il giorno davanti ai videogiochi, non dico che debba fare solo i compiti ma almeno una passeggiata o andare a fare un giro, mi dica lei..."

 

In questo periodo estivo questa è la segnalazione che molti genitori mi fanno quando vengono in studio per parlare dei figli. Ragazzi svogliati, pigri che si svegliano solo per iniziare una partita ai videogiochi magari online.

 

"E' la solita esagerata, non mi lascia mai in pace, in fondo cos'è che le chiedo? di starmene per conto mio tranquillo a giocare, ho fatto già abbastanza durante l'anno!"

 

Questa è la replica dei ragazzi che si sentono invece assillati dalle attenzioni dei genitori, incompresi nel loro desiderio di svago e limitati nella loro libertà d'azione.

 

Se da una parte sono comprensibili le ragioni degli uni, dall'altra sono condivisibili le preoccupazioni degli altri. Cosa fare allora? Come mettere d'accordo il dovere con il piacere? Gli estremi c'è da dire non funzionano mai e così estraniarsi molte ore della giornata davanti al monitor o sventrare la console di gioco produce quasi sempre effetti dirompenti sull'equilibrio familiare. 

 

La prevenzione forse è la strategia che potrebbe funzionare meglio per mantenere una certa pace in casa ma qualora fosse troppo tardi vediamo cos'altro si può fare. Innanzi tutto le strategie cambiano se si tratta di bambini in età da scuola primaria, di ragazzi delle medie o di adolescenti già alle superiori.

Nel primo caso i genitori possono regolamentare l'utilizzo dei videogiochi limitandone l'accesso o il tempo di fruizione senza dimenticare che anche tablet e smartphone vengono utilizzati come console per giocare. Nel secondo caso sarà più difficile vista la naturale inclinazione dei preadolescenti a ribellarsi e occorreranno contratti educativi un po' più sofisticati delle semplici regole. Infine con i ragazzi più grandi è impensabile imporre la propria volontà se non si vuole arrivare allo scontro aperto e la contrattazione diventa d'obbligo.

Oltre a limitare l'uso dei videogiochi, inoltre,  molti genitori in questi mesi caldi hanno anche l'arduo incarico di sollecitare l'esecuzione dei compiti estivi incontrando spesso e volentieri qualche resistenza se non addirittura ribellione da parte dei figli che si trasformano improvvisamente in piccoli sindacalisti in erba.

 

Alcuni suggerimenti, da seguire per prove ed errori, al fine di prevenire o risolvere il problema potrebbero essere:

  1. Regolamentare fin dalle prime richieste l'accesso ai videogiochi condizionandolo al merito: pensare che tutte le richieste debbano essere soddisfatte altrimenti non si è bravi genitori è un modo per cadere nella trappola del senso di colpa e per insegnare ai bambini che tutto è dovuto. Così come noi adulti veniamo educati dalle raccolte punti a fare la spesa nello stesso supermercato, a fare rifornimento nello stesso distributore o ad acquistare la stessa marca di quel prodotto, possiamo educare i giovani a eseguire compiti e rispettare richieste per poter ottenere come premio il tanto ambito videogioco dell'anno e la possibilità di giocarci. Tralasciate i risultati e valorizzate il modo in cui i ragazzi svolgono i compiti, l'impegno che ci mettono e non tradite mai il patto che avete stipulato altrimenti perderete la credibilità. Un accordo che propongo spesso alle famiglie è "un'ora di compiti = un'ora di gioco". Naturalmente funziona solo se avrete la possibilità di controllare vostro figlio.
  2. Verificate la compatibilità dei videogiochi con l'età di vostro figlio: Su ogni gioco è riportata l'indicazione dell'età consigliata ma sarebbe preferibile informarsi prima sulla natura dei contenuti magari guardando qualche video in rete per farsi un'idea migliore su quanto sia adatto a vostro figlio. Nel caso proprio in cui non lo riteniate consono, resistete alla tentazione del "ce l'hanno tutti" e "gli altri genitori glie lo comprano" ma ricordate anche anche proibire una cosa ne aumenta l'interesse.
  3. Provate a giocare insieme a loro: Non è che vi debbano piacere per forza i videogiochi ma giocare insieme è un modo per interessarsi al bambino e conoscere meglio il suo mondo, la sua personalità e cosa gli piace. Con l'esempio inoltre allo scadere di un certo tempo potreste proporre di smettere. 
  4. Coinvolgeteli in attività alternative: Spesso i videogiochi si rivelano un ottimo rifugio dalla noia specialmente in queste giornate di afa e caldo. Inventate e proponete dei diversivi soprattutto da svolgere insieme e che siano divertenti (mi raccomando, stirare o piegare i panni non possono reggere il confronto con uccidere gli zombie o gli inseguimenti stradali...). Potrebbe essere un'occasione per ripescare i vecchi giochi da tavola chiusi nell'armadio o organizzare delle uscite in famiglia. 
  5. Incoraggiateli ad invitare amici a casa: I compiti se fatti in compagnia sono meno noiosi e diventano un'occasione per organizzare divertenti merende in casa e socializzare
  6. Date il buon esempio: Si è più credibili quando si seguono le stesse buone abitudini che si chiede di rispettare. Passare le ore davanti alla TV o su internet dopo aver chiesto di spegnere la console potrebbe risultare un gesto incoerente, un semplice esercizio di potere. 
  7. Utilizzate il costo della risposta: Se un compito non viene svolto o una reazione è troppo violenta stabilite quanto tempo in meno ai videogiochi costerà tutto questo. Utilizzate questa strategia con parsimonia evitando di esagerare. 
  8. Contrattate insieme ai ragazzi il tempo da dedicare ai compiti: Siate flessibili e lasciate un margine di autonomia ma controllate che siano stati svolti.
  9. Siate graduali: Prima che scada il tempo prestabilito per il gioco provate a lanciare un paio di avvisi a distanza di tempo o in alternativa utilizzate dei promemoria sonori in modo che il ragazzo possa prepararsi a concludere il livello in atto ed evitare inutili spargimenti di sangue e bile. 
  10. Lasciate che facciano i compiti da soli: Limitatevi a indicare l'inizio e la fine dello spazio dedicato ai compiti ma lasciate che vostro figlio li svolga in autonomia rimanendo nei paraggi in caso di richieste di aiuto. Se proprio ci sono difficoltà trovate qualcun altro che lo possa aiutare e utilizzate il tempo che avete per condividere attività più piacevoli. 
Ricordate che soprattutto in adolescenza una certa tendenza all'isolamento in casa e alla fuga nella fantasia sono normali fino ad un certo punto e che non sempre sono drammatici segnali di disagio. Se però tuttavia questa tendenza diventa uno stile personale e relazionale mantenete sempre aperto il dialogo ed evitate reazioni allarmate o violente.
Se avete altri suggerimenti o esperienze da raccontare scriveteli pure nei commenti qua sotto. 
Buone vacanze a tutti! 
Dott. Adriano Zenilli 
Psicologo clinico e dell'Età Evolutiva 
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ADHD, DIFFICOLTA' DOPO LA DIAGNOSI (a cura del dott. Adriano Zenilli)

"Signora suo figlio è ipercinetico, non sta fermo un attimo e non sappiamo cosa fare"; "Andrea non segue la lezione e disturba continuamente gli altri"; "Giorgio non rispetta le regole e cerca sempre di stare al centro dell'attenzione"; "..è un bambino pericoloso per sé stesso e per gli altri"; "..è arrogante e maleducato ma con me non la spunta"...

Questi sono solo alcuni dei commenti e delle osservazioni che quotidianamente vengono proposti dagli insegnanti di ogni ordine e grado di scuola e ogni volta che li si ascolta non possono che suscitare interrogativi e domande su quanto si conosca e quanto si comprenda del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD o DDAI).

Dal 24/06/2002 esistono precise linee guida formulate dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza (SINPIA) che definiscono i criteri per la diagnosi accurata dell'ADHD i cui sintomi principali sono la disattenzione, l'impulsività e l'iperattività. Quest'ultima può presentarsi o meno in associazione con i primi due, si parla in questo caso di "ADHD di tipo misto".

I termini con cui si definiscono i sintomi sono però utilizzati spesso anche nel linguaggio comune per indicare aspetti comportamentali diffusi e questo può creare fraintendimenti e giudizi di merito inappropriati. Molti bambini o ragazzi infatti sono distratti a scuola o in alcune particolari circostanze o periodi della vita, alcuni hanno un temperamento impulsivo oppure sono vivaci per natura.

In ambito clinico invece quando si parla di "distraibilità" si intende l'estrema difficoltà a regolare l'attenzione focalizzandola su uno stimolo alla volta, quello che si vede è spesso un bambino che passa da uno stimolo, da un compito o da un'attività all'altra senza soffermarcisi o giungere al termine. Di frequente questo capita quando l'attività in corso è particolarmente noiosa o anche poco interessante per il bambino che possiede una bassa soglia di tolleranza alla noia così come alla frustrazione e reagisce cambiando stimolo. Per "impulsività" si intende la difficoltà, oltre la media, di regolare le proprie reazioni agli stimoli o ai desideri, raramente capaci di differire la risposta a momenti migliori. Così sia ci si trovi al supermercato, che i casa che a scuola, di fronte a un coetaneo o a un adulto, quando si vuole qualcosa la si prende o quando ci si sente provocati o accusati si reagisce senza prima riflettere sulle conseguenze. Infine per "iperattività" non si intende semplicemente il tratto vivace del carattere ma una vera e propria difficoltà a regolare l'attività motoria per la quale rimanere fermi o seduti per tempi anche brevi può risultare molto difficile, più della media.

A questi sintomi primari poi se ne aggiungono di secondari che riguardano fattori emotivi e psicologici quali ansia, depressione, scarsa autostima, atteggiamento rinunciatario di fronte ad un compito più difficile del solito, difficoltà di relazione e così via. 

Per diagnosticare un' ADHD comunque è necessario che i sintomi comportino una significativa compromissione del funzionamento globale del bambino (manuale diagnostico psichiatrico DSM-IV).

La presa in carico è globale abbracciando sia la dimensione individuale che quella familiare che quella scolastica e tra i trattamenti indicati esistono la psicoterapia, la terapia famacologica e il parent training per le famiglie.

In ambito scolastico, le ricerche e le indicazioni delle associazioni di genitori con bambini ADHD hanno indotto il MIUR a formulare delle linee guida e delle circolari che contengono principi, strategie e strumenti utili per gestire sia l'aspetto didattico che quello comportamentale degli studenti con deficit di attenzione e iperattività. Oltre infatti alle difficoltà nel seguire le lezioni e svolgere i compiti, i bambini con ADHD presentano a volte una serie di comportamenti oppositivi e provocatori anche se non così gravi da richiedere una diagnosi specifica di "disturbo oppositivo provocatorio" o di "disturbo della condotta".

Dal 2008 quindi il MIUR diffonde circolari ministeriali che servono a delucidare gli insegnanti su cosa sia l'ADHD, su quali siano i trattamenti più diffusi e forniscono strategie organizzative e procedurali (Circolare MIUR Prot. n. 4226/P4 di ottobre 2008; Circolare MIUR Prot. n. 0001968 dell'aprile 2009; Circola MIUR Prot. n. 6013 del dicembre 2009; Circolare MIUR Prot. n. 4089 del giugno 2010). Le due maggiori associazioni che si occupano di ADHD in Italia inoltre hanno messo da tempo a disposizione degli insegnanti opuscoli informativi con indicazioni dettagliate per gli insegnati sui comportamenti da assumere e da evitare, sull'osservazione dei comportamenti problematici e la loro diminuzione, sull'incremento dei comportamenti positivi e persino sulla valutazione del voto in condotta che deve tener conto dei fattori presenti nella diagnosi di ADHD.

Le famiglie e gli studenti, una volta segnalati i problemi a scuola, iniziano un percorso che richiede tempo e fatica ma che porta finalmente alla definizione del problema ma questo è solo l'inizio. I ragazzi, su invito del neuropsichiatra infantile, spesso iniziano un percorso psicologico volto a prendere consapevolezza del problema, dei propri limiti ma soprattutto delle proprie risorse in modo da poter indirizzare le proprie scelte in modo adeguato alle proprie capacità e abilità e per poter apprendere anche strategie efficaci di studio che possano sostenere un sufficiente livello di motivazione a proseguire nella carriera scolastica. Le famiglie a volte intraprendono percorsi di formazione psicopedagogica sull'ADHD e di counselling familiare per comprendere meglio la natura del disturbo e apprendere le strategie di gestione comportamentale dei ragazzi senza trascurare la dimensione emotiva.

Alcuni insegnanti motivati seguono corsi di aggiornamento o hanno frequentato seminari e master sull'argomento e applicano strategie compensative e dispensative adeguate ma purtroppo non tutti gli insegnanti conoscono il problema e lo accettano. 

I commenti citati all'inizio di questo articolo infatti sono solo alcuni di quelli ascoltati direttamente dal sottoscritto nei vari incontri con gli insegnanti, a scuola o in studio, durante i confronti su studenti con ADHD da me seguiti. A volte non si riconoscono le cause del comportamento impulsivo, magari non ci si spiega il motivo di così tanta distrazione o non si accettano le richieste frequenti di alzarsi dal banco. Le interpretazioni sulle difficoltà di questi ragazzi spaziano dalla dimensione morale a quella filosofica a quella del psicologismo spicciolo e quando ciò accade per le famiglie e lo studente inizia un calvario. Le note vengono utilizzate come strumento privilegiato di correzione del comportamento in un'ottica punitiva piuttosto che educativa e i genitori vengono chiamati spesso sempre per i soliti problemi. Da un lato è comprensibile la sensazione di frustrazione e impotenza che uno studente con ADHD fa provare ma dall'altro vengono di frequente utilizzati sempre gli stessi inefficaci metodi che inevitabilmente portano all'insuccesso. Lo sanno bene quegli insegnanti che invece hanno avuto l'accortezza di informarsi e aggiornarsi che in presenza di studenti in classe con disturbo da deficit di attenzione e iperattività le lezioni vanno organizzate in modo da rispettare la loro curva di attenzione, proponendo pause più frequenti o momenti di apprendimento cooperativo; i compiti a casa dovrebbero essere proporzionati a ciò che realmente lo studente riesce a fare nella stessa media di tempo degli altri; le verifiche scritte andrebbero frazionate e gli esercizi proposti uno alla volta scandendo il tempo; le interrogazioni programmate andrebbero preferite alle verifiche scritte; l'atteggiamento autoritario e punitivo genera spesso oppositività e rifiuto da parte dello studente con ADHD e le relazioni amicali in classe andrebbero rinforzate. Infine, chi si occupa di ragazzi con ADHD, sa bene che il rinforzo dei comportamenti positivi è di gran lunga più efficace che la punizione di comportamenti negativi. Certo ogni strategia si voglia applicare non devono mancare due ingredienti fondamentali, costanza e coerenza, perché il bambino ha impiegato una vita per imparare le sue strategie anche se disfunzionali e non basta qualche incerto tentativo per cambiare il suo comportamento. Spesso poi non si tratta di cambiare ma di accettare ed è la parte più difficile perché ciò chiama in causa i valori e i principi dell'adulto educatore che se ritiene ad esempio che "un bambino non dovrebbe mai parlare a quel modo ad un adulto.." senza tenere in considerazione il deficit che gli impedisce di essere più diplomatico, non potrà fare altro che etichettare lo stesso come "maleducato".

Di fronte a questo spesso le famiglie si trovano in un vicolo cieco, da una parte cercando di comprendere i problemi del figlio, dall'altra cercando di difenderlo dalle continue accuse e da giudizi sgradevoli senza tuttavia giustificare le sue azioni.

L'intervento dello psicologo a volte è di mediazione tra la famiglia e la scuola. Lo specialista è chiamato a illustrare agli insegnanti le caratteristiche dell'ADHD e i metodi pedagogici più efficaci al fine di elaborare un Piano Didattico Personalizzato (PDP) utile a mettere il ragazzo nelle condizioni di esprimere il suo potenziale ma che deve necessariamente prevedere dei compromessi, a volte difficili da accettare per gli insegnanti più rigorosi. Un atteggiamento comprensivo del problema e aperto alle soluzioni è quello più idoneo a superare le difficoltà ma qualora le resistenze superassero la disponibilità al cambiamento, oltre che ad un consulente psicologo le famiglie possono rivolgersi ad una delle associazioni di genitori con bambini ADHD sempre disponibili a offrire il loro aiuto.

E' importante infine creare le condizioni ambientali perché il bambino o il ragazzo possa lavorare serenamente ma ciò non toglie che vada anche sostenuto in lui un buon livello motivazionale e che si debba lavorare nella direzione dell'autonomia per renderlo consapevole delle proprie scelte e responsabile.

 

Dott. Adriano Zenilli

Psicologo clinico e dell'età evolutiva

 

BIBLIOGRAFIA:

http://www.edscuola.it/archivio/handicap/adhd.htm

http://www.aidaiassociazione.com/index.html

http://www.aifaonlus.it/

http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/home

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BULLISMO, DAI LUOGHI COMUNI ALLE AZIONI EFFICACI (a cura del dott. Adriano Zenilli)

Ad un incontro sul bullismo aperto ai genitori e insegnanti qualche anno fa, si alzò un signore e chiese di che cosa in realtà si stesse parlando, i prepotenti in fondo ci sono sempre stati e di prepotenze se ne compiono ogni giorno. Secondo questo signore la soluzione sarebbe stata molto semplice, insegnare a tutti i bambini perseguitati a fare a pugni e se non ne fossero stati capaci allora pazienza, dopotutto vanno avanti solo i più forti. “Cos’è per voi il bullismo?” abbiamo chiesto anche ai ragazzi nelle scuole? “É quando uno si crede più grande e se la prende con i più piccoli” è stata una delle risposte, oppure “quando uno è simpatico e fa gli scherzi, allora gli dicono “er bullo” è stata un’altra. In un incontro in classe, una prima media, durante un primo giro di opinioni venne fuori che il bullo è anche un personaggio simpatico, che fa ridere e che in fondo si da solo un po’ di arie, insomma “er bullo”. In un’altra occasioni mi ritrovai in una classe terza di una scuola media della provincia di Milano per parlare di bullismo e già dalla disposizione dei banchi ebbi l’impressione che qualcosa non andava. C’era una ragazzina in quella classe, guance paffute, occhiali e lunghi capelli lisci. Nello sguardo però nascondeva un misto fra tristezza e rabbia, e lo dimostrava pungolando e provocando chiunque le capitasse a tiro, con un sorrisetto di soddisfazione che si tramutava in un’espressione imbronciata quando sistematicamente per reazione veniva esclusa e isolata dall’intero gruppo classe. Mentre tutti i banchi erano sistemati a coppie, il suo era l’unico da solo, attaccato a quello dell’insegnante come un satellite alla deriva. Era talmente detestata dai suoi compagni di classe che tutti si rifiutavano di toccarla e una volta disposti in cerchio nessuno volle mettersi al suo fianco tant’è che attorno a lei ci fu il vuoto. Alla fine del’incontro mi feci raccontare da lei come viveva tutto questo e la ragazzina scoppiò in lacrime dicendo che quello era il periodo più brutto della sua vita, che non aveva amici, che tutti la odiavano e che l’unica cosa che la teneva viva era la speranza che l’anno successivo, in una nuova scuola e con nuovi compagni di classe le cose, chissà, magari sarebbero cambiate. L’insegnante parlandomi di lei mi riferisce che si è inserita a metà dell’anno nella loro scuola e che da subito ha mostrato segni di insofferenza verso i suoi compagni di classe con atteggiamenti provocatori e dispettosi. A mano a mano è stata quindi allontanata e ciò che le stava capitando, secondo l’insegnante, era tutto sommato la conseguenza delle sue azioni. Arriviamo poi a parlare dei recenti fatti di cronaca, l’aggressione del ragazzino di 12 anni ferito alla milza da due compagni di scuola a Crotone; lo studente disabile di Torino, deriso e picchiato dai compagni che lo riprendevano col telefonino; la ragazza marocchina di 17 anni perseguitata a scuola fino al punto di scappare di casa e scomparire per tre giorni. Questi sono solo alcuni dei casi recentemente portati alla ribalta nelle cronache dei quotidiani. Ma il fenomeno del bullismo non deve preoccupare solo quando diventa tragedia di portata nazionale perché in realtà nella maggior parte dei casi esso c’è ma non si vede. Qualcuno spiega il fenomeno mediante le teorie sulle famiglie sbandate e qualcun’altro responsabilizza la scuola che non insegna più certi valori. Vediamo quindi di capire di cosa si tratta e cosa si può fare per riconoscerlo e intervenire. Intanto, per cominciare, la definizione: “ il bullismo è un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare. Spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittima ” (Sharp e Smith, 1995). Da qui le tre regole d’oro per distinguere tale fenomeno da altre forme di comportamento aggressivo e dalle semplici prepotenze: 1. il comportamento aggressivo, fisico, verbale o psicologico, viene messo in atto volontariamente e consapevolmente, con l’intenzione di arrecare danno; 2. sebbene anche un singolo episodio può essere considerato una forma di bullismo, in genere il comportamento aggressivo viene messo in atto più volte e si ripete quindi nel tempo ; 3. tra il bullo e la vittima c’è una differenza di potere , dovuta alla forza fisica, all’età o alla numerosità quando le aggressioni sono di gruppo, la vittima quindi spesso non è in grado di difendersi (Menesini, 2003; Iannacone, 2005). Da queste semplici indicazioni potremmo rispondere ad alcuni tra i luoghi comuni più diffusi sul bullismo, alcuni dei quali già espressi sopra, secondo i quali ad esempio: “ la vittima deve imparare a difendersi” (come abbiamo visto però la condizione non è di parità ma di disuguaglianza quindi chi subisce non può o non sa come difendersi) oppure “certe volte le vittime se lo meritano” (in questo modo quindi si legittima il bullismo come forma di giustizia nei confronti di chi da noia) o infine “non era una prepotenza, era solo una ragazzata” (questo è un buon metodo per rinforzare il comportamento aggressivo che oltre a non essere punito viene anche valutato simpaticamente come lo studente di prima quando citava “er bullo”). A proposito della frase “il bullismo c’è ma non si vede”, molti sono i casi in cui si crede che nella scuola in cui si insegna o in cui si manda il proprio figlio queste cose non possano avvenire. Questo accade perché si crede erroneamente che l’unica forma di bullismo sia quella fisica . In realtà oltre a questa, che gli esperti inseriscono nel bullismo diretto e che comprende azioni come picchiare, spingere, far cadere, calciare ecc. ne esistono altre. Nel bullismo verbale, forma sempre diretta, si utilizza la parola per recare danno alla vittima, ad esempio con offese o prese in giro insistenti e reiterate. Nel bullismo indiretto invece attraverso comportamenti non direttamente rivolti alla vittima, si giunge alla sua esclusione e al suo isolamento attraverso la diffusione ad esempio di pettegolezzi e dicerie oppure al rifiuto continuato di esaudire le sue richieste. Mentre il bullismo fisico è prevalente fra i maschi, quello indiretto lo è fra le femmine mentre quello verbale coinvolge tutti e due i sessi allo stesso modo. Con l’aumentare dell’età e del grado di scuola si passa da forme dirette a forme indirette di bullismo. Che fare allora ? Il bullismo è un fenomeno sociale e complesso e per essere compreso e affrontato è necessario un intervento che si rivolga a tutti i suoi protagonisti. Esistono diversi progetti di prevenzione al bullismo nelle scuole che prevedono la formazione degli insegnanti , si può prevenire il bullismo introducendo metodi didattici di tipo cooperativo , prevedendo percorsi di educazione affettiva , sostegno psicologico alle vittime, modelli di supporto fra pari . Le famiglie dal canto loro devono abbandonare ogni atteggiamento di delega e collaborare attivamente alla costruzione di una scuola a misura di ragazzo, colloquiando con gli insegnanti e stimolando un confronto sul grado di benessere dei figli oltre che sul livello didattico raggiunto. Vanno rinforzati , inoltre, tutti i comportamenti a favore della socialità con riconoscimenti di tipo affettivo, verbale e non solo materiale. Particolare attenzione va data a tutti quei segnali che potrebbero essere indicatori del problema : eccessiva timidezza, mancanza di amicizie significative, rifiuto di andare a scuola, isolamento nelle ore di ricreazione, richieste continue di denaro senza spiegazioni, sintomi psicosomatici (mal di testa, mal di pancia..) fino a segni evidenti e ripetuti di lotta (lividi, graffi..). Si dovrebbe evitare di bersagliare i figli di domande indiscrete e imbarazzanti, si potrebbe tuttavia aprire il discorso raccontando storie e aneddoti magari legati ad esperienze personali. L’importante è far sentire che se ne può parlare ed evitare di esprimere giudizi che inibirebbero il ragazzo o la ragazza. Purtroppo, o per fortuna, il bullismo non riguarda solo due persone che non si sopportano ma l’intero tessuto sociale che li circonda ed è solo agendo su questo che il fenomeno e non solo il singolo problema (che ne è solo la manifestazione) si potrà prevenire prima che diventi un fatto di cronaca.

Adriano Zenilli

BIBLIOGRAFIA

SHARP S., SMITH P.K. (1995), Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Erickson, Trento

D. OLWEUS (1996) “Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono” Giunti, Firenze.

E. MENESINI (2003) “Bullismo: le azioni efficaci nella scuola” Erickson, Trento.

A cura di NICOLA IANNACCONE (2005) “Stop al bullismo. Strategie per ridurre i comportamenti aggressivi e passivi a scuola” La meridiana, Bari.

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